| Uno dei tratti salienti della società sarda è la sua  forte caratterizzazione territoriale. Sul piano linguistico, etnico,  culturale e comportamentale le differenze tra le varie subaree  regionali sono così forti da rendere problematica la loro omologazione  in un quadro unitario.  La frammentazione di ambienti, profili  produttivi e culturali è preesistente allo Stato unitario ed è in gran  parte da ricercare nella plurisecolare azione di trasformazione svolta  dalle strutture feudali, forme di organizzazione economica e sociale  che per quasi mezzo millennio hanno condizionato la vita della  popolazione sarda. Il feudo costituiva infatti un’unità socio-economica  omogenea e autosufficiente in cui una ristretta élite, legata al  signore del luogo, controllava il sistema produttivo e, attraverso la  gestione del potere locale e dei rapporti con l’esterno, orientava i  valori, i comportamenti, le forme di espressione degli abitanti di quel  determinato territorio.  Essendo il 70% dei villaggi sotto il controllo  dell’aristocrazia spagnola è evidente che per lunghi secoli i loro  vassalli hanno subito l’influsso di aree culturali (quella ispanica e  poi quella sabauda) che hanno arricchito con nuovi apporti linguistici,  etnici, folkloristici, religiosi, tecnici e produttivi) i sostrati  culturali preesistenti fino ad emarginarli e a far prevalere altri  valori identitari condivisi.  A seconda dell’area di provenienza del  barone (Catalogna, Valenza, Maiorca, Aragona, Castiglia, Piemonte) nei  villaggi che vantano ancor oggi una cultura omogenea si rileva la  presenza di differenti influssi architettonici (torri, carceri, case  padronali, chiese, depositi), e artistici (pittura, scultura, arredi,  gioielli, abbigliamento etc…), tecnico-produttivi in agricoltura (il  tipo di semente utilizzata per il grano, l’orzo, i legumi); le forme di  coltivazione della vite (ad alberello, a spalliera); di preparazione  del vino (taglio, maderizzazione); la scelta delle cultivar per  l’innesto degli ulivi (olive maiorchine, valenzane etc.).  Anche il  linguaggio e perfino i valori hanno finito con l’essere pesantemente  condizionati da tali processi.   Grazie  all’iniziativa del sindaco di Orani ed alla collaborazione dei colleghi  spagnoli cercheremo di dare concretezza a tali obiettivi studiando il  territorio che un tempo costituiva il Marchesato. In questa sede  tuttavia e in attesa di una ricerca più approfondita e sistematica  della documentazione, considerando che i colleghi tracceranno un  profilo del feudo che compre quasi tutti i secoli cercherò di rivolgere  l’attenzione al ruolo svolto da alcuni dei protagonisti, delineando un  breve profilo delle strategie praticate dalle “élites locali”.  La loro  azione ha contribuito a difendere gli interessi della comunità nei  confronti del barone e ad accrescere quegli spazi giurisdizionali che  hanno consentito prima a ristretti privilegiati gruppi sociali e poi a  tutti i vassalli di usufruire di nuovi diritti e libertà civili.   Nello sfogliare le carte d’archivio relative al marchesato di Orani uno  dei dati che colpisce maggiormente è il fatto che la documentazione di  cui possiamo disporre in Sardegna è assai limitata.   Come tutti i grandi feudi spagnoli la maggior parte delle carte  amministrative di un certo interesse (mi riferisco alle liste feudali,  alle relazioni degli amministratori sulle entrate fiscali collettate  nei vari villaggi, alla gestione degli appalti relativi ai diritti sul  grano, l’orzo, il vino, etc. agli incarichi assegnati (ministri di  giustizia, sindaco, capitano barracelli, maiore de pardu de silva etc)  sono conservate negli archivi della penisola iberica.  E’ a tali fonti  dunque che è legata la speranza di ricostruire la storia delle singole  comunità, quella delle sue élites interne, del confronto e dei rapporti  di forza con i villaggi vicini, e dei legami economici e commerciali  con altre aree. All’interno di tale discorso uno degli aspetti a cui  dovrà essere rivolta grande attenzione è quello dei rapporti tra la  comunità di Orani e i titolari del feudo.  Sia la villa di Orani che gli  altri villaggi che costituivano il marchesato sottoscrissero infatti  con i loro signori dei “capitoli di grazia” nei quali venivano  specificatamente indicati i diritti di cui il villaggio usufruiva e i  tributi fiscali che essi erano tenuti a pagare.  Ai fini di una  ricostruzione dei rapporti tra baroni e vassalli questo filone di  ricerca risulta particolarmente produttivo.   A differenza di altre aree amministrate da feudatari locali che lungo  tutta l’età Moderna ebbero la possibilità di controllare personalmente  il versamento dei tributi e di utilizzare contro i vassalli renitenti e  l’influenza personale e la forza delle proprie milizie imponendo  talvolta alle comunità tributi un tempo non dovuti nel marchesato di  Orani l’asprezza e l’isolamento dei luoghi e la costante lontananza dei  loro nobili signori, appartenenti alla alta nobiltà spagnola,  consigliò, fin dal XIV secolo, ai titolari del feudo ed ai loro  amministratori di sottoscrivere con i vassalli dei patti in base ai  quali ogni comunità era tenuta a versare una somma fissa in denaro,  integrata da un tributo minimo in natura.  Attraverso lunghe e accorte  trattative Orani e le altre 16 ville si accollarono il pagamento di  diritti la cui incidenza fiscale venne attentamente valutata dalle due  controparti. Volendo stimolare le coltivazioni e l’allevamento i  tributi imposti furono infatti sempre inversamente proporzionali al  grano raccolto e al bestiame posseduto. Meno terre si seminavano e meno  bestiame si possedeva e più gravoso si rivelava il peso fiscale.   Ad Orani, per confermare annualmente il diritto di semina, ciascun  fuoco doveva versare al marchese 8 litri di grano e 8 d’orzo. Gli  agricoltori dovevano inoltre pagare per il diritto di “laor de corte”  24 litri di grano (1/2 starello) e 24 d’orzo, a prescindere dalla  superficie lavorata.  Anche il diritto di vino venne trasformato in una  tassa fissa di 10 cagliaresi che versava sia chi possedeva 2 filari sia  chi ne lavorava 100. Per ogni “segno” (10 capi) gli allevatori di  maiali, pecore e vacche pagavano il deghino e in cambio potevano  pascolare liberamente negli estesi pascoli e boschi ghiandiferi che  costituivano il demanio feudale . Sul commercio locale gravavano alcuni  diritti riscossi – di solito – dell’amostassen.  I mercanti  forestieri erano tenuti a versare alle casse baronali cinque soldi per  la vendita delle stoffe, 2,5 per la frutta e il miele e 2,5 kg di  formaggio ogni 60 kg. Il feudatario traeva un modesto reddito anche  dalla amministrazione della giustizia (multe, tenture e machizie,  diritti di incarica) che ad Orani, a metà Settecento, veniva appaltata  annualmente per 100 lire (circa).  Il marchese tuttavia con tale somma  doveva mantenere in efficienza le carceri e corrispondere un modesto  salario agli ufficiali di giustizia.   Nel  complesso la popolazione di Orani, attorno al 1760, versava annualmente  al marchese non più di 750 lire, quella di Bitti 600 lire e quella di  Nuoro 795.   Il fatto che tale importo non sia  significativamente aumentato nel corso del tempo ci induce a ritenere  che negli archivi spagnoli si conservino documenti che comprovano  l’esistenza di specifici patti intercorsi tra le comunità che  costituivano la baronia di Orani e il feudatario don Juan Mara de  Lisana, parzialmente riconfermati nel 1616 da donna Ana de Portugal y  Borja quando, dopo una lunga causa tra eredi, i territori di Orani  furono uniti alle Barbagie di Bitti, di Nuoro e della curatoria Dore  per costituire un unico marchesato.  I vassalli seppero certamente  trarre profitto dalle tormentate vicende giudiziarie che accompagnarono  il possesso del feudo. I colleghi spagnoli hanno illustrato nelle loro  relazioni il passaggio della baronia da Nicola Carroz a Dalmazzo e da  quest’ultimo (per il matrimonio della sorella Beatrice) a Pietro Mara  Lisana che già possedeva in feudo le incontrade di Gallura Gemini, di  Bitti, di Nuoro. Con molta probabilità a favorire la trattativa tra le  comunità e il barone fu la lunga causa legale avviata da Giovanni  Cascant contro Brianda di Massa.  Le ingenti spese legali inducevano  infatti i contendenti a chiedere ai propri vassalli anticipi in denaro  che venivano ripagati con più ampie franchigie, concessioni e maggiori  privilegi. Non sappiano quanto sia costato al Cascant il ricorso  giudiziario. Una causa simile a quella avviata dalla casata dei  Portugal nel medesimo tribunale di Valenza costò, nello stesso periodo,  ai Borgia, duchi di Gandia, che rivendicavano contro i Centelles la  contea di Oliva più di 215 mila lire (equivalenti al valore di un  feudo).  Pressati da varie necessità ( liti ereditarie, quote di  legittima, dote, matrimoni, guerre) i feudatari, per risolvere urgenti  problemi finanziari, quando i debiti preesistenti non consentivano loro  di rivolgersi ai mercanti, facevano ricorso alla generosità dei  vassalli concedendo loro, in cambio del denaro, ulteriori grazie e  privilegi.  In tale contesto si inseriscono sia i capitoli sottoscritti  nel 1616 da donna Ana de Portugal e Borgia sia quelli che impegnano ai  primi del XVIII secolo donna Prudenziana Portocarrero.  Vassalli, cavalieri, nobili In attesa che gli archivi della casa di Hijar ci  restituiscano tale documentazione sarà qui sufficiente rilevare che i  tributi in denaro, inizialmente assai gravosi (XV e XVI secolo), si  svalutarono col tempo avvantaggiando le comunità. Orani si limitò per  quasi due secoli a pagare 700-900 lire.  La villa si configurava sul  piano fiscale come un feudo chiuso. Ciò consentiva alle élites locali  di gestire i problemi interni con relativa indipendenza. Il carico  fiscale, a seconda dei gruppi familiari che controllavano le cariche  baronali, (ministro di giustizia e sindaco) venivano ripartite su un  numero maggiore o minore di contribuenti senza che il podatario potesse  intervenire per ridurre il numero degli esenti.  Oltre ai nobili ed ai  cavalieri si rifiutavano di pagare diritti dichiarandosi esenti diversi  “prinzipales”, membri del Santo Uffizio e i parenti degli ecclesiastici  che affidando i loro beni ai congiunti esentavano da ogni contribuzione  fiscale i beni posseduti ponendo sotto l’ombrello protettivo della  chiesa bestiame e terre. Come accadeva in tutto il regno sardo il  carico fiscale finiva dunque col gravare sulle deboli spalle dei  vassalli poveri e non su quelle dei ceti più abbienti che gli  amministratori feudali evitavano di inimicarsi.   Con tale ingiusto sistema fiscale nelle avverse congiunture climatiche  ed economiche erano dunque i sudditi più poveri a trovarsi in  difficoltà.  Quelli più agiati utilizzavano invece il loro status  sociale per accrescere la propria ricchezza e la influenza. Le rare  fonti disponibili evidenziano la presenza nel marchesato di una  ristretta élite privilegiata che dopo aver conseguito il cavalierato o  la nobiltà svolge all’interno del feudo funzioni militari e  amministrative, appalta cariche e attraverso una attenta politica  matrimoniale si lega ad altre famiglie del circondario accumulando  terre, bestiame e denaro. Alcuni documenti da noi consultati in  archivio e diversi atti notarili individuati e tradotti in lingua  italiana dallo Zirottu rendono evidente e concreto il livello sociale  raggiunto. Michele Angioy, appartenente ad una famiglia che è presente  dal XVI secolo in diversi villaggi della contea di Oliva e del  Marchesato di Orani quando, nel 1694, fa testamento lascia a ciascuno  dei quattro figli (tra quota del fundamentu materna e quota  paterna) più di 3500 lire ciascuno, somma che nelle zone rurali,  costituiva allora una rilevante fortuna. La qualità e la natura dei  beni posseduti evidenzia un livello di vita che va al di là di quello  attribuibile ad un “prinzipale”.  Se una parte è costituita da vigne e  frutteti e da tanche la presenza di vasi e candelabri d’argento segnala  il fatto che siamo di fronte a famiglie di antica agiatezza. Anche  Demetrio Satta Gaya e la moglie Angela Pirella appartengono a due  gruppi familiari che acquisiscono il cavalierato e la nobiltà nel XVII  secolo.  Essi posseggono un solido patrimonio in terre (chiuse), case e  denaro che fornisce loro un’elevata rendita fin dai primi anni del loro  matrimonio.   L’accumulo di beni immobili e di tanche, per questo  ristretto ceto sociale, non inizia dunque in età sabauda ma risale al  Seicento. Pagando rate arretrate dal donativo regio o dei tributi  feudali e chiedendo in cambio agli altri membri della comunità il  privilegio di pascolo su limitate zone territoriali, accordandosi con  altri “prinzipales” per recintare e vigilare con propri servi le aree  più esposte alle “incursioni” dei pastori dei vicini villaggi, e,  ancora, approfittando delle cariche feudali ricoperte (capitano dei  barracelli, delle milizie, ministro di giustizia, appaltatore di  diritti) essi entrano in possesso di zone del demanio feudale e di  terre temporaneamente incolte consolidando col tempo su di esse i  propri diritti.  Questa lenta e secolare appropriazione si accompagnava  ad una strategia che presupponeva la neutralità e il consenso non solo  degli altri nobili e “prinzipales” (con concessioni reciproche e  un’accorta politica parentale) ma anche il rafforzamento della propria  clientela di soci-coltivatori e soci-allevatori. I nobili affidavano ad  essi terre e bestiame.  Indizi della diffusione di tali pratiche anche  nel marchesato di Orani sono desumibili dalla analisi del testamento  redatto nel giugno del 1702 da Giovanni Solinas il cui bestiame risulta  affidato “a cumone” alle cure di 5 servi pastori.  Tale prassi era così  diffusa che anche le istituzioni ecclesiastiche non esitavano a far  gestire da servi pastori il proprio patrimonio ovino o suino. Il vasto  territorio boschivo e la disponibilità di pascoli consentiva agli  oranesi di trarre vantaggio dalle risorse naturali sottoscrivendo con  pastori forestieri contratti di società che consentivano a questi  ultimi di pascolare gratuitamente il bestiame a cumone risparmiando le spese di affitto.   Questa prassi, dalla quale sembrano trarre vantaggio (spesso a danno  del marchese) sia il podatario che i subappaltatori dei salti e una  parte di “prinzipales” suscitava periodiche tensioni inducendo talvolta  i vassalli a ricorrere per via legale contro tali soprusi. L’atto di  procura sottoscritto nell’ottobre del 1694 da diversi pastori,  trascritto e tradotto dallo Zirottu, evidenzia la capacità di tutela di  cui godevano nel feudo di Orani anche i piccoli allevatori.  Riunitisi  in assemblea senza i “prinzipales” 24 di essi deliberano di affidare  all’avvocato Giovanni Pirella un ricorso giudiziario per chiarire  definitivamente se i vassalli di Orani debbano pascolare gratuitamente  nei saliti ghiandiferi o se questi territori (come pretendevano alcuni  nobili oranesi che avevano appaltato tali diritti) potessero essere  affittati dal sindaco e dai ministri feudali al miglior offerente.  A  fine Seicento, dopo che la peste del 1655 e la carestia del 1680 hanno  decimato la popolazione è evidente che tra vassalli poveri e  “prinzipales” è in atto un confronto sull’utilizzo di vaste parti del  territorio che per mancanza di uomini resta incolto.   I benestanti che, forse, negli anni di crisi avevano pagato una parte  del donativo regio e dei diritti feudali affittando i ghiandiferi  tentavano ora di consolidare tale prassi restringendo l’accesso al  pascolo ai soli abbienti. Per non subire tale sopruso, che contrastava  con i secolari e inalienabili diritti di ademprivio, ai pastori  oranesi, nel 1694, non restò altra alternativa che il ricorso legale.  Come si riscontra nella documentazione relativa ad altri feudi, nel  marchesato di Orani il confine tra il lecito e l’illecito, essendo  fondato sulla tradizione e sulla interpretazione che di essa davano  ecclesiastici, notabili e “prinzipales” fu sempre assai incerto.  Quando  poi a sostenere le ragioni di chi intendeva innovare o modificare le  usanze comunitarie contribuivano contratti sottoscritti  dall’amministratore del feudo e a sostenerle interveniva anche il  notabilato locale o estesi gruppi parentali le possibilità di difesa  per le fazioni minoritarie diventavano problematiche.  Per capire quali  tensioni e spaccature i contratti di appalto suscitassero all’interno  delle comunità è sufficiente fare riferimento all’atto col quale  l’amministratore del feudo, nel 1723, cedette in subappalto a tre  “prinzipales” oranesi (Marcello, Pisanu-Solinas, Cosseddu-Modolo) e a 4  allevatori di Oniferi la colletta del deghino, le terre a pascolo e il  bosco ghiandifero di Oniferi per 100 lire complessive.  Il contratto  consentiva ai 7 soci di gestire in proprio non solo le terre a pascolo  ma anche le stoppie, le multe, l’affitto ai forestieri, la cattura del  bestiame che veniva introdotto abusivamente. Il guadagno degli  appaltatori era dunque legato alla riduzione dei diritti di ademprivio  della comunità: maggiore era il prestigio e l’influenza sociale più  concreta diventava per essi la possibilità di introdurre limitazioni e  di accrescere i propri guadagni.  Tale situazione determinava una  frequente polarizzazione della popolazione in fazioni che si  schieravano a difesa dei diritti pretesi dall’amministratore del  marchesato oppure contro tali imposizioni. Il ricco materiale  dell’archivio ducale su questo versante potrebbe offrire molte novità  chiarendo quali “partiti” locali controllassero, di tempo in tempo, la  riscossione dei diritti feudali .   Divisi  sulla gestione degli appalti, cavalieri e notabili oranesi si univano  creando un fronte comune contro i tentativi fatti dai podatari per  limitare le loro libertà o ledere quei privilegi che consentivano loro  di “governare” la villa di Orani.  L’atto con cui nel dicembre 1702,  davanti al notaio Ignazio Angioy Carta, i vassalli si impegnarono a  resistere giudiziariamente alle pretese dell’amministratore feudale  Giorgio Cugurra, che pretendeva di confermare come sindaci solo persone  prive di titolo nobiliare, costituisce la risposta delle élites locali  all’ultimo insidioso tentativo feudale di controllo della comunità.   Essendo esenti dalla giurisdizione signorile i nobili costituivano  infatti un potente scudo dietro il quale trovavano riparo i diritti  “inalienabili” della popolazione del villaggio.  La loro nomina  consentiva dunque ai vassalli di contrastare senza rischi personali le  pretese degli amministratori del marchesato e di non rischiare di  essere arrestati o intimiditi nella difesa degli interessi del  villaggio.  L’ascesa sociale di questo ceto  nobiliare non risulta tuttavia legata alla sola gestione delle cariche  e degli appalti del marchesato. Gli Angioy, i Guiso, i Carta, i  Pirella, i Cadello, i Satta, i Gaya devono le loro fortune sia al ruolo  da essi svolto come capitani di quelle milizie feudali che erano state  ripetutamente mobilitate dal baronato tra Cinque e Seicento per la  difesa del Capo del Logudoro dalle incursioni barbaresche e da quelle  effettuate dalla flotta francese ma anche alla capacità che queste  famiglie hanno di fornire ad una parte dei loro consanguinei un elevato  grado di istruzione per consentire ai propri figli di inserirsi  nell’apparato amministrativo e giudiziario e nella gerarchia  ecclesiale. I Carta (che acquisiscono la nobiltà nel primo quarto del  XVI secolo), legati inizialmente alla casata degli Arborea ed ai  Carroz, dalla villa di Benetutti di cui erano originari, si irradiano  in tutto il Logudoro ponendo radici anche ad Orani. I Manca discendono  da un ramo secondario di quei nobili sassaresi che possedevano i feudi  di Thiesi, Monti, Usini, Mores e controllavano diverse importanti  cariche amministrative del Capo Settentrionale. Attuando un’abile  strategia matrimoniale essi si imparentano con i Virde, i Gaya, i  Cedrelles, i Guiso estendendo i loro interessi anche sull’asse Ottana –  Orgosolo – Galtellì.  Ad Orani risultano presenti per qualche tempo  anche gli Esgrechio influente famiglia sassarese imparentata con i De  la Bronda e i Manca Cedrelles che vantano tra i loro membri vescovi,  ministri dell’Inquisizione e consiglieri civici.   Le famiglie che ad Orani esercitano in età moderna maggiore influenza  sono tuttavia quelle degli Angioy, dei Manca Guiso, dei Cadello, dei  Pirella.   La costante presenza di  rappresentanti di tali gruppi parentali in tutti gli atti che la  comunità oranese sottoscrive con il marchese e le funzioni di  intermediazione che essi svolgono nei confronti dei rappresentanti  delle altre ville e della stessa corona per la colletta del donativo e  le attività militari è confermato dal ruolo e dalla funzione che i  vassalli oranesi riconoscono a questi clan parentali. Immuni alle  minacce e intimidazioni feudali per titolo di cavalierato o di nobiltà  essi dispongono di notevoli risorse materiali in terre, bestiame e  denaro.  Ad accrescere periodicamente le loro ricchezze e a favorirne  l’ulteriore ascesa sociale contribuiscono, di generazione in  generazione, anche le generose elargizioni di quei consanguinei che  hanno abbracciato la carriera ecclesiastica. Per i Manca Guiso le  fortune sembrano iniziare con un Simone Manca, vescovo di Ottana, che  affida al fratello la gestione dei beni vescovili.  Questo ramo della  famiglia, imparentatosi con i Guiso, baroni di Orosei e con i  Cervellon, marchesi di Sedilo, diventano amministratori della mensa  vescovile di Nuoro-Galtellì e della prebenda di Orgosolo.   Al possesso di numeroso bestiame e a carriere notarili ed  ecclesiastiche appare legata anche l’ascesa dei Pirella. Uno di essi,  diventato vescovo di Bosa nel XVII secolo, favorì la concessione del  cavalierato ed alcuni membri del suo parentado e sostenne negli studi  diversi nipoti avviandoli alla carriera forense.  Di un certo rilievo  appare anche il ruolo dei Cadello. Originari della Catalogna, alcuni di  essi vennero in Sardegna al seguito dei Centelles, allora conte di  Quirra, e si insediarono anche nel Logudoro dove, qualcuno dei  discendenti, sposò una Prunas, figlia di un ricco commerciante di Bosa.  Uno dei loro figli (Sebastiano) si trasferì a Tortolì mentre il  fratello Salvatore, insignito del cavalierato (1630), si spostò a  Pozzomaggiore dove sposò una Dettori.  Il figlio di quest’ultimo si  trasferì ad Orani svolgendovi funzioni di rilievo. Nel corso del  Settecento alcuni discendenti del ramo cagliaritano di tale famiglia  divennero giudici della Reale Udienza e acquisirono il titolo di  marchesi di San Sperate. I Cadello vantano tra i loro consanguinei  anche due altissimi prelati: Salvatorangelo diventerà vescovo di Tempio  (1741) e Saturnino, nominato arcivescovo di Cagliari nel 1797, è stato  uno dei pochi sardi ad essere insignito del capello cardinalizio.   Anche gli interessi della famiglia Angioy travalicano, fin dal XVI  secolo, gli angusti confini del feudo di Orani. Mentre alcuni  discendenti ottengono il cavalierato (1631-1652) e si inseriscono a  vari livelli nella amministrazione feudale altri, avviati agli studi e  conseguita la laurea ottengono parrocchie e rettorie. Uno di essi,  Giuliano Angioy, a metà 600, (1647) diventa canonico della diocesi  algherese e Commissario del Santo Uffizio.  Sia l’una che l’altra carica  fornivano annualmente un reddito assai elevato. Anche nel Settecento  gli Angioy avviano alla carriera ecclesiastica diversi loro  consanguinei che troviamo citati in carte ecclesiastiche ed in atti  notarili.  Dei fratelli di Giovanni Leonardo,  antenato di Giommaria Angioy, il famoso giudice e patriota, Giovanni  Maria si trasferì a Bono dove sposò Giovanna Ledà Satta Gaya ed  Emanuele ad Iglesias dando luogo ad un altro ramo rappresentato  dall’avvocato Antioco Giuseppe. Quest’ultimo trasferitosi a Cagliari  divenne segretario del Consiglio di città.   Agli Angioy è legata tra le altre anche la casata degli Asquer. Uno di  essi (Giovanni Battista) appartenente al ceto mercantile genovese, ( e  forse interessato all’appalto del marchesato) quando la peste si  diffuse nell'isola (1653-55) si trasferì con la famiglia da Cagliari ad  Orani dove morì colpito dal pericoloso flagello.  Mentre il resto della  parentado, scomparso il pericolo, rientrava nella capitale legando per  via matrimoniale le proprie sorti a quelle dei Martì (ricchi  commercianti), dei Cugia (commercianti e magistrati) e degli Amat e  acquisendo il viscontado di Flumini, una delle figlie di Giovanni  Battista, unitasi ad Orani in matrimonio con un Angioy, diede origine  al ramo Angioy Asquer.  I vincoli di parentela tra i due ceppi nobiliari  furono rinnovati nella seconda metà del Settecento quando un figlio di  don Gavino Asquer, visconte di Flumini, e di Isabella Cugia, impalmò  Teresa, figlia dell’avvocato Giuseppe Angioy (del ramo Angioy di  Iglesias).  Da quanto si è rilevato appare  evidente che le ville del marchesato e Orani in particolare, poterono  contare sulla influente protezione di famiglie residenti nella capitale  del regno e legate a doppio filo al mondo del commercio, agli apparati  amministrativi e giudiziari, all’alto clero.  Per il marchese ed i suoi  amministratori il confronto con le più potenti famiglie oranesi  (Angioy, Cadello, Satta, Gaya, Manca Guiso, Pirella) fu sempre carico  di incognite.   I legami che esse coltivavano  con amici e parenti che vivevano in città e ricoprivano importanti  uffici e la politica di tutela nei confronti delle comunità locali  praticata dalla corona ispanica e da quella sabauda rendeva  problematica qualsiasi pretesa signorile.  A questo proposito è  opportuno ricordare il citato mandato affidato nel 1694 da 24 vassalli  di Orani all’avvocato Giovanni Pirella (che funge in questo caso da  nume tutelare degli interessi della comunità) affinché difenda i loro  diritti di pascolo davanti ai giudici della Reale Udienza e il ricorso  presentato nel 1702 per conto della villa di Orani dall’avvocato  Giovanni Angioy Asquer, originario di Orani ma anche “cittadino di  Cagliari” contro il podatario Giorgio Cugurra.  Le  carte che abbiamo esaminato sembrano avallare l’ipotesi che il  progressivo calo delle rendite feudali e l’accresciuto potere di  contrattazione delle comunità inizi con l’inurbamento a Cagliari e  Sassari delle famiglie nobili oranesi, e il freno posto dai Savoia alle  rivendicazioni della grande feudalità spagnola.  Su questo versante, nel  ventennio 1745-1765 si realizza una svolta decisiva che muta  definitivamente i rapporti tra baronato e comunità.   Quando le truppe franco-iberiche, durante la guerra di successione  austriaca, nel 1744, entrano in Piemonte saccheggiandone i villaggi il  sovrano, per rifarsi dei danni che ha subito in Terraferma, ordina il  sequestro dei feudi spagnoli in Sardegna. Il marchesato di Orani viene  affidato alle cure di don Michele Valentino che riduce o elimina molti  tributi per dimostrare alla popolazione del feudo (ed in particolar  modo a quella della Gallura di cui era originario) che il blando  governo del re è preferibile a quello dell’aristocrazia spagnola.  In  questo ventennio diversi tributi feudali, sottoposti dal governo a  verifica documentale, cadono dunque in disuso perché richiesti  illecitamente.   Contemporaneamente, l’avvio  di una politica di rifiorimento della agricoltura induce il governo a  facilitare con apposite leggi la cessione gratuita ai vassalli di terre  incolte appartenenti al demanio feudale. A seguito di tale politica tra  il 1761 e il 1771 anche Orani muta il proprio assetto produttivo e  quello politico amministrativo.  Con voto segreto e senza l’intervento  dei rappresentanti del marchese la comunità elegge un censore e una  commissione di probiviri che individuano le terre da coltivare,  riorganizzano la compagnia barracellare, istituiscono un monte  granativo che dovrà prestare ai vassalli il grano da semina a modico  tasso di interesse.  Tra ritardi e resistenze il numero dei coltivatori  inizia ad aumentare, il monte granatico raggiunge una dote di 70  quintali e la popolazione estende le coltivazioni fino a 120- 130 ha.  complessive.   Nell’intero circondario  l’espansione delle terre coltivate porta ad una profonda  ristrutturazione dell’utilizzo del territorio.  Sollecitati dalle  autorità i sindaci di Orani, Oniferi e Orotelli definiscono gli spazi  da assegnare ai rispettivi vidazzoni e stabiliscono i criteri da  seguire per evitare che le terre seminate in un villaggio confinino con  quelle destinate a pascolo dall’altra villa. Come evidenzia il  documento pubblicato da G. Zirottu, nel primo biennio, Orani era tenuta  a lavorare le terre di Liscoy, Taleri, Dore e Corti; Orotelli quelle di  Forolo e Oniferi quelle di Bau Martine. Nel secondo ciclo di rotazione  agraria gli oranesi, lasciati a pascolo i suoli lavorati in precedenza  affinché il bestiame li concimasse, avrebbero arato i vidazzoni di  Nardali e Suergiu.  Anche Orotelli e Oniferi dovevano concentrare i  seminati a Suergiu. Nel terzo biennio Orani e Oniferi dovevano seminare  le terre di Oddini e i vassalli di Oniferi il Prato antico.   Nella seconda metà del Settecento la gestione del marchesato fu dunque  tormentata non solo dalle cause di divisione ereditaria e dai sequestri  regi ma anche dal fatto che la corona, nell’intento di limitare il  potere feudale e di sottoporlo al proprio controllo, malgrado gli ampi  diritti di allodio di cui il feudo godeva. Inoltre,per impedire che le  rendite dal marchesato finissero in Spagna, prima obbligò i feudatari  spagnoli ad investire in Sardegna (nel restauro di chiese, conventi,  carceri, ponti, doti per fanciulle nubili, etc.) una parte delle  rendite arretrate che il re era tenuto a restituire e successivamente  emanò la legge che istituì i consigli di comunità sottraendo in tal  modo al potere feudale non solo la gestione del territorio (come e dove  coltivare, quali aree riservare al bestiame etc.), che fu assegnata al  censore, ma anche la scelta dei sindaci e degli ufficiali di giustizia  (1799).  Con l’approvazione di tali  istituzioni che gestivano il potere locale senza che il feudatario  potesse intervenire anche ad Orani le contestazioni nei confronti del  marchese, sostenute sia dalle famiglie nobili sia dai “prinzipales”  rappresentati nel consiglio di comunità ripresero vigore e trovarono  crescente ascolto tra i ministri regi.  Ricostruire  queste tensioni, che talvolta alimentarono pericolose faide, è un altro  dei compiti della ricerca ma esso si configura come un obiettivo di  lungo periodo. Nella fase iniziale occorrerà invece capire le  motivazioni che indussero la maggior parte delle vecchie famiglie  nobiliari a trasferirsi in città.  Attivi per diversi secoli questi  gruppi nobiliari nella seconda metà del Settecento “abbandonarono”  Orani e si inurbarono per ricoprire i più alti gradi della magistratura  (Cadello e Angioy) e della gerarchia ecclesiale (Angioi, Pirella,  Cadello) del regno.  “Prinzipales”, notabili, borghesi  A trarre vantaggio dagli spazi politici lasciati  vuoti furono, soprattutto nel XIX secolo, “prinzipales” e notabili. Tra  i protagonisti di questa nuova fase della storia di Orani troviamo i  Marcello (possidenti, notai, ecclesiastici), i Siotto, i Pintor, i  Sequi. Il censimento dei beni effettuato a fini fiscali nel 1814  evidenzia la presenza di famiglie che dispongono di un discreto  patrimonio in case, terreni chiusi, vigne (Marcello, Sequi, Siotto) e  di un ingente numero di capi ovini e vaccini (Sequi-Nin, Pasquale e  Pietro Siotto).   A questi ceti rurali  emergenti spetterà un compito più facile di quello svolto dalle  famiglie nobiliari che li avevano precedute. Gran parte della strada  che portava al profitto individuale e alle libertà borghesi era stata  infatti già spianata.  Se nel Cinque e  Seicento il marchese poteva nominare come amministratori sudditi  castigliani o aragonesi e servirsene per imporre innovazioni fiscali o  giudiziarie con l’avvento della Monarchia sabauda la nomina dal  podatario venne condizionata al beneplacito regio.   Il podatario che doveva essere scelto tra i sudditi del re di Sardegna,  non essendo legato da vincoli di fedeltà familiare o clientelare al  marchese, più che ad una corretta amministrazione era interessato a  ricavare un profitto personale diretto. Per tale ragione il bilancio  del feudo di Orani, nel secondo ‘700, iniziò ad inclinare verso il  passivo.  Sia l’avvocato Giacinto Atzori, che sostituì il Valentino  nell’amministrazione del marchesato sia il dottor Francesco Cocco, che  gli subentrò, non riusciranno a modificare tale situazione.   Gli spazi di manovra dei podatari stavano diventando sempre più  angusti. Grazie alla vigilanza regia ogni tentativo dei ministri  feudali di trarre vantaggio dalle opportunità loro offerte suscitavano  l’immediata reazione delle ville.  Quando, ad esempio, il podatario  Francesco Mossa tentò, nel 1771-72, di ridurre le spese di gestione  ordinando  
             ai “massajos”, contro le disposizioni delle  regie prammatiche, di eseguire lavori per conto del marchese nel  cruciale periodo della mietitura agli allevatori di fornirgli mensilmente, a titolo di omaggio, diversi capi vaccini di  accrescere le entrate relative all’amministrazione della giustizia  imponendo nuove tariffe sulla redazione degli atti processuali e il  tributo relativo a illeciti diritti di visita;   tutte le comunità del marchesato  insorsero rifiutandosi di pagare i diritti e segnalando “le  innovazioni” alle autorità regie che redarguirono l’amministratore.  Dopo  quasi un cinquantennio di limitate o mancate entrate la casata del  marchese di Orani nel 1818 propose al re di rinunciare ad ogni diritto  sul feudo e di avere in cambio la tonnara di Flumentargiu ma la  monarchia sabauda si tenne i redditi certi della tonnara e lasciò il  marchese “suddito straniero” in gravi ambasce finanziarie.   Da tempo infatti i vassalli della Gallura non  pagavano più i diritti e quelli dei circondari di Orani, Bitti e Nuoro  si limitavano a versare solo le quote in denaro. Mentre gli avvocati  del Duca inviavano continue richieste al governo per sollecitare  l’utilizzo della forza pubblica contro i vassalli renitenti la corona  decretò, nel 1825, un altro sequestro delle rendite del feudo.   L’avvocato Floris, amministratore del marchesato, stanco dei solleciti  cercò di pareggiare i versamenti dovuti alla corona per il donativo del  1823 con le spese sostenute per alimentare e custodire nelle carceri  baronali 49 detenuti condannati o arrestati per ordine del prefetto  regio.  Solo dopo lunghe discussioni e l’intervento dell’ambasciatore  spagnolo presso il ministro degli esteri a Torino la Tesoreria del  regno deliberò di pagare al feudatario il debito arretrato consentendo  all’avvocato Floris di versare le quote di donativo dovute.   L’immagine del barone esoso che chiede ai propri amministrati tributi oltre il dovuto e che l’ inno del Mannu contro sos feudatarios ha contribuito a consolidare e diffondere rispecchia più la situazione  dei feudi gestiti da nobili sardi che quelli posseduti dalla  aristocrazia spagnola.  Le “angariae” e i soprusi che emergono anche in  questi territori sono da attribuire non ai signori ma alla avidità  degli appaltatori locali. Questi ultimi brigano infatti tra loro per  ottenere, malgrado i rischi e le difficoltà, questi ambiti incarichi di  esazione. Più i gruppi familiari che partecipano all’appalto godono di  prestigio e di influenza e più elevati sono i guadagni e le rendite.   Non sempre tuttavia la fortuna aiuta chi mostra spirito imprenditoriale.   Nel 1812 Salvatore Pintor, possidente ed ex sindaco di Orani, si  accorda con il notaio Cicalò Gallisai e con i fratelli Pietro e  Vincenzo Crobu (negozianti) per appaltare le rendite dell’incontrada.  L’affare sembra promettente perché il Pintor è persona autorevole.   Le annate 1812 e 1813 furono in tutta la Sardegna anni di fame e di  carestia e quando gli altri soci capirono quello che accadeva nelle  aree vicine convinsero il Pintor ad accollarsi l’intero affare pagando  al Marchese, a discarico dei tre ex appaltatori, 1100 lire.  Poiché il  nuovo sindaco di Orani si oppose al versamento di alcuni diritti il  Pintor non fu in grado di mantenere i propri impegni e il Gallisai e i  Crobu, d’intesa con l’avvocato del marchese, ottennero dal giudice di  mettergli all’asta i beni.   Controllati dal  governo e impossibilitati ad utilizzare la forza per piegare la  resistenza fiscale dei vassalli, diversi appaltatori non riuscirono a  chiudere i loro conti.   Nel 1780- 87 a  trovarsi in questa situazione fu il commerciante livornese Cesare  Baylle. Console generale di Spagna, amministratore della contea di  Oliva, del ducato di Mandas e del marchesato di Orani, affittuario  della tonnara di Flumentorgiu e socio della Stamperia reale , per porre  fine all’imponente contenzioso tra baroni e comunità,che i ricorsi  delle amministrazioni locali alimentavano di continuo e definire una  volta per tutte pesi e diritti egli chiese al governo di istituire una  “regia delegazione” al fine di risolvere in via “economica“ tutti i  ricorsi. Nel febbraio 1782 il sovrano accettò la proposta e affidò tale  compito ai magistrati Pau e Magnaudi ma i lavori andarono per le  lunghe.  E il Baille dovette fronteggiare molti atti di resistenza A  seguito di ripetuti e continui furti di bestiame egli dovette  intervenire applicando la vecchia normativa feudale ma la popolazione  di Orani si rifiutò di pagare i diritti di incarica dai quali per  tradizione immemorabile essa si considerava esente.  Quando il Baylle,  il 28 ottobre 1776, inviò il suo delegato, accompagnato dal notaio e  dai ministri per notificare alla comunità la multa di 250 lire per i  furti di cui non si conoscevano gli autori gli ufficiali feudali  <<furono da 250 e più vassalli circondati ed a forza levarono di  mano dei medesimi la nota di distribuzione di quel pagamento, lacerata  in un momento a cagione delle minacce e stra da cui furono costretti a  ritirarsi in Sarule>>.   Per queste  resistenze e per altri fatti il Baylle rinvierà per anni la  presentazione del saldo contabile costringendo il marchese ad  incaricare l’avvocato Pasquale Atzori (figlio dell’ex amministratore  Giacinto) ad inoltrare ricorso alla Reale Udienza.   Anche negli anni ’90 il feudatario dovette affrontare una nuova crisi  finanziaria. A causa della tentata invasione francese e dei moti  angioiani i vassalli che pagarono i diritti sono molto pochi. Mercanti  e amministratori speculeranno sulle necessità del marchese  concedendogli anticipazioni creditizie a tassi assai elevati. Il nobile  Duca è costretto infatti a corrispondere i donativi ordinari e  straordinari imposti dalla corona durante le guerre napoleoniche senza  avere la possibilità di riscuotere i tributi a lui dovuti dai vassalli.   A seguito di tale situazione debitoria, nel  1806 i redditi del feudo vengono posti sotto sequestro dagli eredi dei  commercianti Navarro e Belgrano (uno genero e l’altro zio di  Giovammaria Angioy) creditori di una discreta somma e dallo stesso  fisco regio. L’Intendente Generale e il procuratore fiscale, non  considerando validi i titoli feudali relativi alla Gallura Gemini, ne  chiedono infatti la devoluzione alla corona costringendo il povero Duca  ad avviare un’altra dispendiosa causa che assorbe per qualche anno  quasi tutte le rendite che egli trae dalla Sardegna.  Le poche entrate,  tra il 1806 e il 1807, finiscono nelle casse del notaio Doneddu,  nominato custode e depositario dei conti del feudo dal Tribunale,  costringendo il duca a pagare i propri legali con denaro inviato dalla  Spagna. I ministri feudali erano infatti pressati dal fisco regio che  pretendeva il puntuale pagamento dei tributi e dei salari senza che  essi potessero realizzare adeguati incassi.  Per tale ragione molti  amministratori rinviavavano ripetutamente la consegna dei conti finali.  Sostenuti dai consigli di comunità i vassalli non ricevendo i servizi  dovuti (dalla manutenzione delle carceri e dei ponti alla tutela  dell’ordine pubblico) rifiutavano infati di pagare alcune quote di  tributo innestando un circolo vizioso. Come gli altri grandi feudi  spagnoli (ducato di Mandas e contea di Oliva) anche il marchesato di  Orani, tra ‘700 e ‘800 divenne un’area nella quale i vassalli, facendo  leva sulla politica della corona sabauda, che tendeva ad indebolire la  feudalità, guadagnarono franchigie e libertà che i consigli  comunitativi trasformavano in nuovi diritti.   Se la villa di Orani, piccola capitale del marchesato, essendo  fiscalmente poco gravata, pagava senza troppe storie le 900 lire  (circa) dovute al marchese in altre aree l’evasione risultava assai  diffusa.   Nel secondo decennio dell’Ottocento  -lamentava l’avvocato Floris -la situazione era ulteriormente  peggiorata. Nel 1818 egli aveva speso in Gallura 2022 lire e ne aveva  incassate solo 82. Dopo il 1820 il fenomeno della evasione fiscale si  estese anche ai mandamenti di Orani e di Nuoro. A chiedere l’esenzione  dal pagamento dei diritti feudali non furono solo i sacerdoti, i  cavalieri, i consiglieri di comunità, i censori, i sindaci, i flebotomi  ma anche i “prinzipales” e le famiglie agiate.  Nel 1828 l’appaltatore  feudale si vide costretto a chiedere, tramite citazione al tribunale di  Nuoro, il pagamento delle quote dovute da diversi notabili di Orani,  Nuoro, Oniferi.  Costoro asserivano infatti di non avere mai pagato  liste feudali. A Bitti i fratelli Delogu e Pala attestarono il loro  status di prinzipales affermando di indossare come segno un berretto  “forestiero” di lana colorata e inviando al giudice di mandamento una  delibera dal Consiglio di Comunità che comprovava le loro  dichiarazioni. All’amministratore non restò che inoltrare un ulteriore  ricorso ma le cause civili, anche allora, andavano per le lunghe e  richiedevano continue spese.  Impossibilitati ad usare la forza pubblica  e privi di giurisdizione i feudatari non riuscirono più a frenare  l’evasione fiscale. Le tecniche per sfuggire al pagamento diventarono  sempre più raffinate. Nel 1824, a seguito di numerosi ricorsi  speditigli dai prinzipales del mandamento di Orani il prefetto di Nuoro  chiese all’amministratore del marchesato le liste feudali (in  originale) e per esaminarle “minuziosamente” le tenne un intero anno.  A  tempi ormai scaduti l’avvocato Floris, podatario del marchese, ricorse  al Governatore di Sassari per imporre ai vassalli del mandamento di  Orani il pagamento delle tasse arretrate ma la maggior parte dei  contribuenti anziché pagare preferì fare qualche giorno di carcere e  inoltrare una nuova richiesta di esenzione. Per la scarsa  collaborazione degli impiegati e ministri regi il ginepraio burocratico  e amministrativo diventò inestricabile.   Prefetti e giudici rinviavano le sentenze e chiedevano continui contraddittori tra le parti per accertare “la verità”.   Nel 1835 – segnalava allarmato l’avvocato Floris alle autorità – gli  stessi parroci del marchesato di Orani avevano fatto circolare la voce  che il governo non avrebbe utilizzato la forza pubblica per far pagare  i renitenti. La feudalità doveva affrontare un infernale circolo  vizioso; i sindaci compilavano le liste senza l’intervento dei delegati  baronali scaricando i tributi sui nullatenenti e favorendo i benestanti  e gli esattori non riuscivano ad avere soldi da chi non possedeva  neppure la casa.  Talvolta i sindaci vecchi “dimenticavano di compilare  le liste e i nuovi amministratori dichiaravano che il riparto non era  di loro competenza e i primi, nuovamente interpellati, si defilavano  affermando di non avere più potere, e autorità.   Da Nuoro, villaggio in cui, dopo i moti di su connottu, permanevano forti tensioni, nel settembre 1839, il podatario inviò al  viceré l’ennesima protesta perché i sindaci della villa non avevano  compilato le liste feudali del 1836, 1837, 1838 e gli appaltatori,  privi di ruoli e liste fiscali non potevano legalmente operare.   Questa situazione prefallimentare del marchesato di Orani era determinata da diversi fattori.   Uno degli elementi che emergono costantemente dall’esame della  corrispondenza tra le autorità regie, e i podatari feudali e la  costante lamentela degli amministratori per l’impossibilità di  collettare i diritti dovuti dai vassalli senza l’aiuto della forza  pubblica.  Se nei circondari di Orani o di Nuoro l’appalto delle rendite  ad un gruppo di notabili offriva qualche garanzia, in Gallura i  collettori che si avventuravano negli stazzi rischiavano di essere  uccisi.   In tale area la resistenza era  animata dai cavalieri tempiesi i quali, dopo aver chiuso estesi  territori, temevano di doverli restituire al demanio feudale. In  Gallura i grandi signori del bestiame, proprietari di 5000 – 6000 capi  non volevano intromissioni all’interno delle loro vastissime tanche e  dei rebanos. Nel 1816 – 817 il duca di Hijar, per far fronte  alla carestia ed alimentare i propri vassalli fece trasportare da  Mandas a Tempio 300 quintali di grano spendendo, per le esigenze  annonarie della Gallura, 1500 lire ma non incassò quasi nulla dagli  ingrati allevatori galluresi che , a causa della cattiva annata, si  rifiutarono di pagare il deghino. Nel primo ‘700 il feudo rendeva 4277  lire, detratte 1820 lire di spese ne restavano 2617 per pagare il  donativo al re e la rendita annuale al marchese.  Tra il 1820 e il 1825  nelle casse dell’amministratore entrarono 1207 lire lorde ma egli ne  spese 8000 per le carceri, il ponte nel Coghinas e altre emergenze. Per  far fronte alle necessità della Gallura gemini il podatario si vide  costretto ad utilizzare le entrate dei dipartimenti di Orani, Bitti e  Mandas (6099 lire) con le quali riuscì a pagare le tasse dovute al re  dai vassalli galluresi.   La progressiva  erosione dal sistema feudale. Passava anche attraverso l’utilizzo dei  diritti di ademprivio che le comunità vantavano sulle terre del  marchese.  Ad Orani come ad Oniferi il  Consiglio civico, con false attestazioni richiedeva al marchese per i  vassalli nuove fette del demanio feudale da destinare alla coltivazione  e al pascolo, ma tali spazi venivano poi subaffittati ai forestieri  sottoscrivendo con essi dei contratti di società al fine di consentire  a questi ultimi di risparmiare le spese di pascolo.  Ad Orgosolo il  diritto che la comunità aveva (dal 1725) di far pascolare i porci nel  bosco ghiandifero venne esteso ai primi dell’Ottocento a tutti i  quadrupedi. L’intera popolazione contestò infatti gli ordini dei  ministri feudali e si rifiutò di ritirare il proprio bestiame dal  demanio del Duca di Hijar.  Un altro problema  che animò il dibattito all’interno delle comunità nel periodo del  tramonto dei feudi e della progressiva privatizzazione e chiusura delle  terre fu la gestione del territorio e del rapporto tra paberile e vidazzone.   La trasformazione in tanche recintate di aree un tempo di uso  collettivo restrinse infatti gli spazi agrari di uso comune creando  periodicamente divisioni e tensioni interne tra pochi grandi allevatori  e i pastori poveri.   Nel villaggio di Orani  questo problema emerse ripetutamente. Tra il 1828 e il 1829, le  chiusure restrinsero ulteriormente lo spazio agrario e il Consiglio  civico cercò di razionalizzare l’utilizzo della terra. All’interno  della comunità erano tuttavia presenti esigenze contrastanti.   In contrasto con quanto richiesto da diversi coltivatori nel 1828 il  sindaco di Orani chiese all’Intendente (e non più al feudatario)  l’autorizzazione ad utilizzare per altri due anni le terre che erano  state adibite a vidazzone e pabarile così da concimare meglio quelle a  pascolo e sfruttare un po’ di più quelle già arate. Il Consiglio civico  si mostrò infatti contrario a portare da 3 a 4 le aree a vidazzone,  come richiesto da diversi contadini.   Quelle  esistenti, sosteneva la delibera consiliare, erano molto lontane dalle  zone adibite a pascolo mentre l’area di “Su Puleju” dove si era chiesto  di seminare sarebbe stata esposta non solo alle insidie derivanti dallo  sconfinamento del bestiame locale ma anche alle incursioni dei pastori  nuoresi e di Mamoiada. In contraddittorio con l’Ufficio  dell’Intendenza, nel 1829, i consiglieri deliberarono di destinare “su  Puleju” non a vidazzone ma a zona di pascolo per il bestiame  manso sostenendo che essendo un’area riparata dai venti essa si  prestava al pascolo e alla custodia degli animali di maggior valore.   Tra i due “partiti” presenti in Consiglio, a prevalere, condizionando  la decisione dell’Intendenza di Finanza di Nuoro fu dunque quello degli  allevatori. Tuttavia, come accade ancor oggi, le divisioni all’interno  della comunità oranese nascevano non solo a causa di interessi  economici legati all’utilizzo della terra e quindi al precario  equilibrio tra agricoltura e pastorizia ma anche per soddisfare  esigenze familiari o di natura clientelare.  Se nei secoli precedenti,  quando il feudatario esercitava il suo pieno e indiscusso potere la  lotta tra gruppi parentali nasceva per far assegnare ad un proprio  congiunto la carica di ufficiale di giustizia, sindaco o barracello ed  impegnava l’intera catena di amicizie, dopo l’abolizione del  feudalesimo, la situazione non solo non mutò ma anzi il confronto si  fece più aperto. Da questo punto di vista quanto accadde ad Orani nel  1841 per l’assegnazione del posto di flebotomo è abbastanza  significativo.  Da un ricorso presentato dall’ex capitano barracellare  (appartenente evidentemente al gruppo avverso) apprendiamo che la  nomina del sanitario era stata deliberata da un Consiglio composto da  membri legati tra loro da stretta parentela: tre fratelli, un suocero,  due generi, un figlio, 5 cugini di 1° grado e due di un altro ramo  parentale.  Dei 9 sacerdoti che avrebbero dovuto firmare l’atto erano  presenti solo 4 (i favorevoli) e 4 erano anche i rappresentanti dei  capifamiglia sui 20 che ne avevano diritto.   Divisa nella gestione degli interessi la comunità di Orani fu invece  assai coesa nella difesa del territorio dalle pretese dei villaggi  confinanti.   A tutela dei propri confini  Orani avviò contro i paesi vicini diverse cause civili. Il rapporto tra  popolazione e territorio era certo più favorevole a Nuoro (che aveva  3400 abitanti) e Mamoiada (che ne aveva 2000) rispetto ad Orani che ne  aveva 1700.   Per gli Oranesi tuttavia  fronteggiare in 1700 i 5400 abitanti di Nuoro e Mamoiada che premevano  ai confini per ottenere pascolo, ghiande e legna non fu facile.  Dopo  gli accordi sottoscritti nel XVI secolo con Mamoiada rileviamo una  nuova ripresa delle tensioni a fine Settecento quando per tre anni  (1799 –1802) i diritti feudali del partito di Orani furono presi in  appalto da alcuni sarulesi.  Costoro si disinteressarono totalmente di  quanto accadeva nell’esteso bosco ghiandifero di Orani che confinava  con Nuoro e Mamoiada. Anziché pagare qualcuno per sorvegliare il bosco  del marchese gli appaltatori risparmiarono sulle spese e (forse  incoraggiarono o autorizzarono per amicizia) i nuoresi e i mamoiadini a  far legna nel territorio di Orani.  Ben presto numerosi carratori  iniziarono ad effettuare tagli indiscriminati affermando di essere  stati incaricati dal vescovo di Nuoro o dal capitano dei dragoni ma –  affermava nel ricorso il sindaco di Orani – con un biglietto per un  carro entravano 25 carratori. Nel 1804 quando ormai il salto “è quasi  sterile e senza alberi come quello di Nuoro e Mamoiada” il Comune corse  ai ripari e organizzò gruppi di vigilanza che catturarono e  sequestrarono due carri e i relativi gioghi di buoi di 2 trasportatori  nuoresi (Mauro Podda – Moro) imponendo loro pesanti multe. Il processo  che venne intentato dalla Comunità di Orani con l’assenso dell’avvocato  Pintor Sirigu, visitatore generale del feudo per conto del governo,  durò a lungo e riprese vigore nel 1808 quando l’appalto del marchesato  venne affidato a don Giovanni Sequi Nin, fratello del vicario  capitolare di Alghero e uno dei più agiati possidenti della villa. Il  nuovo appaltatore, incurante dei danni che avrebbe causato al  patrimonio boschivo della comunità in cui era nato, iniziò a vendere le  autorizzazioni di legnatico ai forestieri (nuoresi e mamoiadini)  guadagnando somme rilevanti.  Il ricorso in tribunale servì a frenare  l’ingordigia dell’amministratore e le incursioni degli abitanti dei  comuni confinanti ma il bosco ghiandifero restò esposto anche ai  danneggiamenti degli allevatori oranesi che dovendo nutrire il proprio  bestiame tagliavano le chiome verdi oppure interi alberi per fare legna  da ardere.   Nel XIX secolo, come accadde in  tutta Europa, anche nel marchesato l’equilibrio tra risorse e  popolazione peggiorò rapidamente e con esso il rispetto per l’ambiente.  Dopo l’editto sulle chiudende (1820) anche ad Orani si iniziò a  recintare superfici abbastanza estese riducendo le terre comuni.   Oltre ai rappresentanti più autorevoli dal notabilato locale (Siotto,  Pintor, Marcello) a chiudere e recintare furono cittadini di altri  paesi, trasferitisi nel villaggio a seguito di matrimoni o pastori di  Nuoro e Mamoiada insediati da tempo in zone di confine dove, nelle  cussorgie o attorno all’ovile, avevano dato avvio alla coltivazione di  qualche pezzo di terra.   Le aree in cui  pascolare e far legna gratuitamente divennero insufficienti in tutto il  circondario costringendo quanti non potevano pagare un affitto ai  possidenti di tanche o alle amministrazioni comunali limitrofe a  praticare il pascolo abusivo.   Dopo la  repressione dei moti di “Su Connnottu” una parte dei pastori poveri e  dei coltivatori di Nuoro e Mamoiada cercò di soddisfare le proprie  necessità in territorio di Orani.  A creare problemi – segnalava il  sindaco – erano anche i ricchi proprietari del paese. Questi ultimi  avevano accresciuto il numero delle loro vacche e dei maiali senza  preoccuparsi di produrre il fieno necessario a nutrirle d’inverno e nei  mesi più rigidi, quando la neve ricopriva l’erba, spinti dalla  necessità, tagliavano i teneri polloni del bosco comunale.  Per  proteggere i ghiandiferi il Consiglio civico, chiese al prefetto di  sostituire i ministri del salto (che non potevano essere sempre  presenti e che spesso erano troppo condiscendenti con amici e parenti)  con ronde armate di 8 – 10 uomini da eleggere settimanalmente a turno  per fronteggiare sia le incursioni dei nuoresi e mamoiadini sia quelle  dei possidenti locali.  Come si può rilevare  l’indagine storica e quella sul feudo di Orani in particolare può  offrici un interessante spaccato della società locale, delle sue  tensioni interne, e dei valori e delle identità che ne hanno rafforzato  la coesione o alimentato i rapporti con l’esterno auguriamoci che la  documentazione rimasta in Spagna e quella sarda consentano di  ricostruire l’intera storia della comunità e non solo dei limitati e  parziali frammenti. Prof. Gianfranco Tore  |